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LA CITTA'

CASTELLO NELSON

 

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CENNI STORICI

Il cosiddetto "Castello di Maniace" si trovava a cavallo della grande trazzera regia che per tutto il medioevo fu l'arteria più importante di penetrazione nell'interno dell'Isola, percorsa da Re e Imperatori, da eserciti e torme di invasori. Per essa infatti penetrarono nel Valdemone gli Arabi; su di essa si svolsero le prime battaglie dei conquistatori Normanni; per essa si avventurava, dopo aver fatto testamento, il viaggiatore che voleva raggiungere Palermo. Ma quali le sue origini?

Non è facile penetrare nel mistero della sua storia che non ci rivela neanche il nome originario della plaga. Il nome attuale si collega a quello straordinario avvenimento bellico del 1040, quando un generale bizantino, il protospatario Giorgio Maniace, affrontò in questa valle un esercito arabo di 50 mila soldati e lo sconfisse, facendo scorrere tanto sangue nelle acque di quel torrente che da allora si chiamò "Saracena".
Ma il villaggio esisteva già da tanti secoli, come ci rivelano i reperti archeologici venuti alla luce sotto la zappa del lavoratore della terra e come ci testimoniano le tombe "a grotticella" che ancora conservano i cocci di una civiltà preistorica, purtroppo finora non presi in considerazione dagli storici di chiara fama, ma solamente trattati in qualche articoletto da innamorati di storia locale o esplorati dalla curiosità distruttiva di incolti ricercatori casuali che, attratti dal mistero e dalla curiosità, hanno manomesso e spesso distrutto testimonianze preziose della preistoria dell'Isola.
Penetrare dunque il mistero della storia della plaga, meta di civiltà diverse, non è facile perché, come si è detto, escluse le testimonianze sopra accennate del periodo preistorico e di quello greco e romano, nulla sappiamo delle vicende che si alternarono in questa regione.
Notizia che getta un po' di luce nella storia delle origini è che sulle sponde del torrente, che lambisce l'attuale Castello, sorgeva una vecchia grangia (fattoria rurale monastica) basiliana dipendente dal Monastero di S. Filippo di Fragalà da tempo immemorabile, e che, a presidio della trazzera regia, vi era un fortilizio che faceva parte del sistema di difesa di questo percorso tra i più importanti dell'Isola, in collegamento visivo con il Castello di Bolo che dall'alto vigilava come un nume tutelare. Esso infatti era il primo caposaldo di guardia dell'importante arteria dopo la Città di Randazzo; da qui, quasi a vista, man mano che la lunga ed ampia trazzera si snodava, vigilavano sulla sua sicurezza, superbi fortilizi quali erano, oltre alla citata Torre di Maniace ed al Castello di Bolo, feudo dell'Arcivescovo di Messina, il Castello di Torremuzza, la Torre solitaria del Fiume, il Castello di Cesarò, tardo feudo dei Colonna, scorte vigilanti sulla sicurezza del viaggiatore fino a Troína che dava l'avvio ad altre valli, anch'esse fortificate, fino alla Conca d'Oro, dominata dalla superba Capitale.
Sorvolando sulle vicende degli eserciti greci del siracusano Dionigi e degli eserciti romani, la marcia di Giorgio Maniace nel 1040 è il punto di partenza delle notizie storiche certe della plaga. Giorgio Maniace, partito da Bari ancora in mano bizantina, con un esercito rafforzato da truppe normanne racimolate in Campania, sbarca a Messina, si avvia per l'impervia strada dell'impenetrabile Valdemone e affronta un esercito arabo sceso dalle balze di Troina, facendone strage proprio nel pìanoro solcato dal torrente che scorre ai piedi dello slargo su cui sorge l'attuale Castello e da cui partono le sorgenti del Simeto. Prosegue quindi, vittorioso, la sua marcia che si ferma a Siracusa dove, all'imbocco del Porto Grande, fabbrica una fortezza che, rinnovata dall'Imperatore Federico II di Svevia, porta ancora il nome di Castello Maniace, con una omonimia che spesso induce confusione negli inesperti visitatori.
La popolazione indigena fu accresciuta nel numero da elementi bizantini e la plaga e il villaggio da loro popolato, da questo momento, presero il nome del generale greco. Dopo qualche anno la pianura di Maniace fu spettatrice di un'altra grande battaglia che aprì la Sicilia alla conquista normanna. Il Gran Conte Ruggero, proveniente dal continente italiano, sbarcato nei pressi dì S. Agata di Militello, per una trazzera che scavalca i Monti Nebrodi, partendo forse dal paesetto di Frazzanò, si getta nella pianura di Maniace, affronta l'esercito arabo e, forte della nuova tecnica e della animosità feroce dei suoi Normanni, lo sbaraglia, conquista Troina, ne fa la sua prima Capitale e la sede della prima diocesi, di quella da lungo tempo aspettata felice restaurazione della Religione Cristiana che gli diede il glorioso titolo di "Adiutor Christianoruni" con cui firmò le sue pergamene di concessione e i suoi decreti.
Fu proprio in questo primo periodo normanno che il villaggio si accrebbe di nuova popolazione. La Contessa Adelaide, venuta dal suo Monferrato come sposa del Conte Ruggero, portò con sé una numerosa colonia di gente settentrionale, nota come "lombarda", che popolò intieri paesi apportandovi i propri costumi, il proprio linguaggio, la propria civiltà. Maniace, assieme a Randazzo, Piazza Armerina, Aidone, Capizzi, S. Fratello, fu una di queste colonie lombarde che ebbero un ruolo militare di grande impegno, perché, collegate insieme, furono valide difese di Guglielmo il Normanno nel 1169 e di Tancredi nel 1190. Ma l'avvenimento più strepitoso vissuto dal villaggetto sperduto di Maniace fu il passaggio di Papa Urbano II nel 1089, in visita alla Troina del Conte Ruggero. Fu un fatto storico che lasciò la sua impronta profonda nella storia generale della Sicilia. Fu infatti in questa occasione che fu stabilito il grande privilegio per i regnanti della Sicilia, durato fino al secolo passato, che va sotto il nome di "Regia Legazia", che fece di essi i Legati Pontifici della regione. Singolare istituzione che in mano a regnanti poco scrupolosi, guidati soltanto o dal loro interesse o dalla ragione di stato o spesso dall'arbitrio, tanti disguidi, nei secoli futuri, doveva creare nelle cose e nella disciplina ecclesiastica, come ci dimostra proprio il caso di Maniace. Per questa facoltà infatti, nel 1799, il timoroso Re Ferdinando IV poté regalare al laico anglicano Orazio Nelson un territorio che era esclusivamente ecclesiastico, quale era il Monastero e le dipendenze creati dalla Regina Margherita per i Figli di S. Benedetto. Il santo ed intrepido Papa si fermò nello sperduto villaggetto e per lui fu una gioia trovare una testimonianza cristiana, forse l'ultima, in quel territorio orinai pagano e arabo, nel bel quadro della Vergine ancora esistente, venerato in quella cappelletta eretta dal generale bizantino a perpetuo ricordo della sua vittoria e lasciata agli abitanti come protettrice di quelle abitazioni che da allora avrebbero preso il suo nome. Si prostrò davanti alla sacra e materna immagine della Madonna sotto il titolo di "Madre di Dio" e invocò l'aiuto suo materno per la sua impresa, per ottenere cioè dal conquistatore il ripristino della vita cristiana e della gerarchia nell'Isola e soprattutto un aiuto valido per risolvere il grande problema dello Scisma d'Oriente che, nonostante i diversi tentativi fatti lungo i secoli e il grande Concilio di Firenze (1430) e gli avvenimenti del tempo presente, dura insoluto fino ai nostri giorni. Proprio all'ultimo periodo normanno, che nulla poté per impedire la decadenza irreversibile dei monasteri greci, tanto fiorenti prima, si deve la creazione del grande fabbricato che, dalla Torre di Guardia in esso inclusa, prese il nome di "Castello di Maniace".
La Regina Margherita, moglie di Guglielmo il Malo, spinta, come affermano gli storici, dalla sua pietà verso la Madonna che in quel posto solitario maternamente regnava, volle creare un cenobio benedettino come testimonianza della sua filiale devozione (1173). E così, proprio a lato della Torre di Guardia, sfiorata dalle acque del Saracena, a ripopolare quella vasta e profonda vallata tra le pendici dell'Etna e i Monti Nebrodi, sorse il grosso fabbricato a lode di Dio e della Madonna, a profitto dei villici e dei pellegrini che in esso avrebbero trovato assistenza e difesa. Il cenobio ebbe, lungo la sua esistenza, vicende fortunose e pur nella sua vita indipendente, ebbe a subire i disagi, le vessazioni e gli umori dei vari dominatori che si succedettero nel Regno di Sicilia. Associato in un primo tempo al Monastero benedettino di Monreale, fondato da Guglielmo il Buono, figlio di Margherita, fin da principio perciò fu esente dalla giurisdizione arcivescovile di Messina (1174). 1 Primo suo abate fu Guglielmo di Blois, insignito di una autorità quasi vescovile perché ebbe la giurisdizione su tutte le chiese che sorgevano nella zona e nei paesi vicini come Villaggio del Corvo, Roccella, Tortorici ecc. ed altri fino a Taormina, che costituirono in pratica quasi una piccola diocesi.
Punto di riferimento e di sosta dei vari conquistatori, in esso presero alloggio, nel loro passaggio, Arrigo VI nel 1194, Federico Il di Svevia, suo figlio, sfrenato cacciatore col falcone, e con lui la madre Costanza, re Pietro d'Aragona di passaggio per Randazzo nel 1282 e con lui il suo esercito, imitato da tutti i suoi discendenti nel corso del sec. XIV: verso di loro il Monastero non fu certamente tenero se da qui prese l'avvio la cosiddetta "Congiura di Randazzo", il cui promotore fu proprio l'abate Guglielmo che organizzò una campagna di ribellione contro i sopravvenuti Aragonesi (1285); scoperta però, portò al patibolo i componenti e all'esilio a Malta l'improvvido abate che ebbe il tempo di darsi ad una vita di penitenza e di tanta sentita pietà da essere dal popolo onorato come Beato.
Il Monastero in questi tempi cosi travagliati ebbe una vita difficile, e non sempre fu moralmente ineccepibile la condotta dei monaci che in esso ebbero residenza. Il dovere vivere pensando spesso, per necessità, alla politica e il dovere prestarsi ad ospitare conquistatori, re di passaggio con i loro non sempre esemplari seguiti; il dovere subire prepotenze da soldatesche sbandate, da briganti, da facinorosi in quella landa deserta per vari secoli, furono causa di sbandamenti e di abitudini ed evasioni non sempre cònsoni allo spirito religioso che avrebbe dovuto dominare in un Monastero. Ciò non poteva non fare intervenire le autorità ecclesiastiche che già nel 1225 associarono il Monastero di Maniace a quello di Mormossoli. Non regolarizzatesi le cose, è del 1237 l'altro provvedimento disciplinare pontificio che aggregò il Monastero alla diocesi di Messina. Ma non per questo si normalizzò la vita disciplinare del Monastero che si trovò coinvolto in quell'imbroglio della "Congiura di Randazzo” con a capo il suo abate, finita - come abbiamo già detto - in un bagno di sangue nel 1285. Tutto ciò non poteva non lasciare le sue conseguenze nella disciplina religiosa dei monaci che per qualche tempo - come dice lo storico - vissero "senza freno e con scandalo dei fedeli". Questa fu la ragione per cui nel 1342 presero le redini del Monastero i monaci cassinesi di S. Nicolò l'Arena di Catania, non senza contrasti e opposizioni.
Non valse a nulla nemmeno l'unione col famoso Monastero benedettino di S. Placido Calonerò, presso Messina, sotto il governo di un altro santo abate, il Beato Placido Campolo, perché questi, calunniato e sospeso dalla carica, dovette ritirarsi a vita privata e per anni attendere con una vita esemplare dall'intervento miracoloso di Dio, la sua riabilitazione.
Intanto era maturato un avvenimento storico che avrebbe sovvertito la vita, l'amministrazione, lo spirito religioso di tutti i monasteri e le case religiose ricchi di proprietà: su di essi si abbatté il provvedimento più funesto per la vita monastica che fu l'istituzione degli Abati Commendatari, persone estranee all'ordine, le quali, per i loro meriti politici presso il Papa o il Re, erano autorizzate a percepire tutti i frutti e le rendite dei beni dei monasteri, lasciando ai monaci solo quel poco strettamente necessario per vivere.
Triste conclusione che diede a costoro la facoltà di fare da padroni anche all'interno dei monasteri entro cui si sentivano autorizzati a trasferirsi con la famiglia, con la sfrenata accolta dei servi e degli amici che da veri corruttori dei costumi e della disciplina, portavano dentro le case religiose dissipazione e mondanità poco confacenti ad un luogo di preghiera.
Il primo abate commendatario del Monastero di Maniace, tale Giovanni Ventimiglia, è del 1396. Egli infatti usufruì di tutti i beni del Monastero, assegnando ai monaci per il loro sostentamento la misera somma di 32 onze all'anno. Il più illustre dei commendatari fu il Card. Rodrigo Borgia, il futuro Papa Alessandro VI, sotto il quale pare sia avvenuta l'unione del Monastero di Maniace con quello di S. Filippo di Fragalà. Ma le cose non dovettero andare bene se si arrivò ad alterchi e bastonate. Ed in modo ancora più grave dovette continuare la decadenza del glorioso Monastero se lo storico del tempo si sente in dovere di annotare che in esso era tanto “lo sterminio et la ruina" che "di loco di santificazione" era diventato "ricettacolo di ladri". A detta del Radice, in contrasto col Pirri, 24 furono gli abati del Monastero, tra i quali famosi furono Guglielmo di Blois, poeta latino, un Nicolò Tedeschi poi Arcivescovo di Palermo, il Beato Guglielmo, già sopra ricordato come promotore della sfortunata "Congiura di Randazzo" e il Beato Placido Campolo, le cui reliquie sono custodite nella Chiesa di Santa Maria di Randazzo, fino ai nostri giorni, perché, deceduto in tale città, dove il Monastero possedeva una casa di abitazione, gli abitanti non vollero restituire le spoglie, nonostante gli ordini delle più alte autorità.
Ma ecco nel 1491 un altro cambiamento radicale per il Monastero: con bolla papale di Innocenzo VIII, cui era stato ceduto dal Card. Borgia, il detto Monastero fu aggregato all'Ospedale Grande Nuovo di Palermo. Dopo tale cessione, per quanto l'Ospedale avesse avuto imposto l'obbligo di non fare decadere il culto e la vita religiosa in esso, con l'impegno di erogare ai monaci ivi residenti la somma di 185 onze all'anno, il Monastero decadde rovinosamente nelle fabbriche e nella disciplina religiosa a tal punto che nel giro di tre secoli fu affidato dal sopraddetto commendatario Ospedale Grande Nuovo per ben undici volte a diverse famiglie religiose.
Nel 1585, andati via i Benedettini, subentrarono i Basiliani ai quali successero, pochi anni dopo, i Frati Eremiti di S.Agostino che, appena qualche anno dopo, furono sostituiti dai Frati Conventuali di S. Francesco (1589) e così, per anni ed anni, si susseguirono, a gestire il glorioso Monastero, una lunga serie di famiglie religiose che curarono il culto ma che non ebbero né pace nè duratura permanenza: infatti nel 1592 subentrano i Frati Pao lini; ritornarono per la seconda volta i Basiliani nel 1593; ma a costoro, nel 1601 appena, successero i Preti secolari di Bronte che nel 1602 furono sostituiti, per la seconda volta, dai Conventuali di S. Francesco che, dopo solo un anno, lasciarono il posto ai Preti secolari di Cesarò. Né qui si ferma l'avvicendamento degli abitanti del Monastero. Nel 1609 successero i Preti secolari di Palermo e poi ancora nel 1611 per la terza volta vennero i Basiliani. Nel 1693, il noto terribile disastro tellurico distrusse letteralmente, assieme a gran parte della Sicilia sud-orientale, il vecchio Monasteronormanno, abbattendo del tutto la Torre di Guardia, la parte absidale della Chiesa e la maggior parte delle celle di abitazione dei monaci e relativi servizi del Monastero. Tanto gravi furono i danni, che i Basiliani, seguendo l'esempio di altri monasteri sperduti in plaghe deserte, come quello del S. Salvatore della Placa presso Francavilla di Sicilia, decisero di trasferirsi a Bronte presso la Chiesetta di S. Blandano (allora fuori dell'abitato) che ancora, fino a qualche anno fa, conservava il loro ricordo nei ritratti degli abati e nella statua di S. Basilio. Ivi rimasero fino alla settaria soppressione delle Corporazioni Religiose che il giovane governo italiano attuò in Sicilia nel 1866.
Ma prima di tale data, un avvenimento di notevole portata storica aveva trasformato l'esistenza del glorioso Monastero e di tutto il suo immenso patrimonio terriero che misurava ben 9 mila ettari: il Re Ferdinando III, riconoscente per l'aiuto ricevuto dall'Ammiraglio inglese Orazio Nelson, in occasione della rivoluzione di Napoli (1796) che aveva messo in pericolo il trono dei Borboni, con decreto del 1799, avvalendosi degli usurpati poteri della "Regia Legazia” gli regalò le proprietà terriere e il Monastero, creandolo Duca di Bronte, con poteri feudali sul sopraddetto paese.Con questo decreto cessò del tutto la funzione del Monastero e i discendenti del Nelson, nella linea collaterale degli Hood-Bridport, giacché egli non ebbe eredi diretti, da tale data gestirono come proprietà privata tutta la ducea. 1 frati avevano già restaurato le fabbriche e la Chiesa nella parte salvata dal sisma, ma trasferitisi a Bronte, fondarono colà una nuova sede che, come abbiamo detto, durò fino al 1866. Questo loro nuovo fabbricato per anni, dopo tale data, funzionò come sede municipale, ma ora è scomparso del tutto, soppresso dalla fame di suolo della ricostruzione. Unici testimoni della permanenza dei Basiliani in Bronte sono ancora la Chiesetta di S. Blandano e qualche residuo nella toponomastica del paese. I nuovi proprietari del vecchio Monastero non si limitarono ad amministrare la grande estensione terriera, ma ebbero per tutto il sec. XIX grande influenza sugli avvenimenti politici ed amministrativi del Comune di Bronte, vantando su di esso diritti feudali, solo nominalmente cessati con la Costituzione del 1812, ma praticamente perdurati per tutto il secolo passato ed oltre. Furono infatti parte interessata nei famigerati casi dell'eccidio di Bronte operato dal generale Nino Bixio nel 1860, inviato da Garibaldi a sedare la rivoluzione sfociata in un bagno di sangue. I fortunati discendenti di Nelson, fin dal principio del secolo passato, annualmente venivano ad abitare, per alcuni mesi, nel vecchio Monastero, ristrutturato nella parte residenziale in una sontuosa dimora fornita di tutte le comodità. Una folla di impiegati, contadini, affittuari, personale di servizio e dell'amministrazione, popolò il vecchio cenobio benedettino che nella fronte, a rivelare la presenza del grande nuovo signore, si ornava della bandiera italiana affiancata all'inglese. 
Cosi là si svolse la vita per un secolo e mezzo. Penultima avventura della vasta plaga fu l'esproprio da parte del Governo Italiano, in occasione dell'ultimo conflitto bellico e l'assegnazione dell'immensa proprietà all'Ente Riforma Agraria che vi costruì, ai lati del Castello, il "Villaggio Caracciolo” in ricordo della più illustre vittima della rivoluzione napoletana, impiccato all'albero maestro della sua nave da Orazio Nelson. L'Ente quotizzò tutta la proprietà e la popolò di case coloniche modernamente e razionalmente attrezzate con silos, stalle, magazzini e abitazione. Ma l'Italia perdette la guerra e la proprietà fu rivendicata dai vecchi proprietari che abbatterono il “Villaggio Caracciolo", cacciarono i coloni e restaurarono i loro diritti e la loro maniera di amministrare.
Un avvenimento di questi ultimi anni ha fatto vivere al vecchio Monastero l'ultima fase della sua storia: l'ultimo erede, da buon seguace delle teorie moderne, vende ogni cosa, proprietà terriere e fabbricato, capitalizzando la somma di cinque miliardi. Prelevatore privilegiato e fortunato è stata l'Amministrazione Comunale di Bronte che è riuscita ad assicurarsi la proprietà del fabbricato e di
17 e più ettari di terreno vicino (1981) con l'intento di fare di esso un luogo turistico e di cultura di alto interesse e di prestigio.


HORATIO NELSON, ammiraglio inglese, nacque a Burnham Thorpe, Worfolk, nel 1758.
Si mise in evidenza nelle lotte per la presa di Bastia e di Calvi, in Corsica.
L’ 1 agosto 1798 distrusse la flotta francese ad Abukir. 
Acquisito grande ascendente alla corte borbonica di Napoli, patrocino' la spietata rappresaglia contro gli esponenti della Repubblica partenopea (1799).
Dopo essersi impadronito di Copenaghen (2 aprile 1801), fu nominato comandante della flotta inglese del Mediterraneo e il 21 ottobre 1805 sconfisse la flotta francese al largo di capo Trafalgar, sulla costa atlantica della Spagna, dove pero' rimase ferito a morte.
Nelson ricevette in dono dal re Ferdinando di Borbone l'abbazia di S. Maria di Maniace, con tutti i possedimenti, come ricompensa per avere stroncato la rivoluzione napoletana del 1799.
Successori di Nelson nella ducea furono il fratello, reverendo William, la figlia Charlotte (1835), sposata con Samuel Hood, visconte di Bridport.
Nelson non ando' mai nella ducea di Bronte e soltanto prima di morire aveva inviato come suo procuratore il visconte Andrea Grafer.

I Duchi che hanno abitato il Castello
Ammiraglio Horatio Nelson
1799-1805
Reverendo William Nelson
1805-1835
Charlotte Nelson Bridport
1835-1874
Alexander Nelson-Bridport
1874-1904
Alexander Nelson-Hood
 1904-1937
R. Arthur Herbert Nelson-Hood
 1937-1969
Alexander Nelson-Hood
1969-1981
   
 

L'INGRESSO

Non ponte levatoio, non torri di difesa, non merlatura caratteristica, ma una facciata piatta di vecchio palazzo settecentesco.
Grosse piante di ippocastani col loro perpetuo stormire allietato dal cinguettio di numerose famiglie di uccelli in quell'alto silenzio, e gli odori penetranti della campagna danno il saluto al visitatore.
Egli si ferma e osserva: (a destra) le monofore a feritoia, ad arco acuto in rosso mattone, della Chiesa; (di fronte) il solenne portale di entrata, in basalto a grosse bugne a cuscino, chiuso da un grande cancello in ferro battuto su cui spiccano le sigle dei nomi degli ultimi proprietari (N.B.)
L'entrata e' solenne.
Si penetra sotto il largo portico coperto, probabile opera del secolo passato, che da' adito al grande cortile che fa da centro di tutto il vasto complesso.
In fondo nel centro da' il "benvenuti” la croce in basalto innalzata in onore e a ricordo di Orazio Nelson.
Sul cippo si legge: Heroi immortali nili (All'eroe immortale del Nilo). A destra entrando, in linea arretrata, e' il grande portale della Chiesa

 

LA CHIESA

E' dedicata alla Madonna di Maniace ed e' un'opera rappresentativa dell'ultimo periodo normanno. Eretta dalla Regina Margherita, sposa di Guglielmo il Malo, nel 1174, e' un nobile esempio di architettura tardo-normanna a tre navate. 
Subi' gravi danni dal terremoto del 1693 che la privo' di tutta la parte absidale a cominciare dall'arco trionfale di cui, nella piatta parete di fondo, si vedono ancora le tracce. Il tetto e' a capriate, in piccola parte originario. 
Ambiente suggestivo nella sua linearita' ravvivato dalle poche opere d'arte superstiti.  
Il portale d'entrata, di fattura accurata, ha un piu' nobile gemello nel grandioso portale del Castello Maniace nell'Ortigia di Siracusa, uno dei castelli innalzati da Federico II di Svevia. 
I capitelli di sinistra sono ornati da una serie di teste di mostri e di esseri alati, animali stilizzati e ghignanti che riscontriamo nella normanna Cattedrale di Cefalu'. 
Qualcuno ha voluto vedere in essi raffigurate scene infernali o simboli dei vari peccati. 
I capitelli di destra presentano scene che, in coordinata successione, ci mostrano le conseguenze del Peccato Originale di Adamo ed Eva cui il Signore disse "Col sudore della tua fronte, mangerai il pane" (Gen.2,19): Cacciata dal Paradiso Terrestre, Lavoro dei campi, Molitura del grano, Caccia, Guerra. 
Il portale perdette il suo slancio originario a causa del riempimento del piano antistante. 
Un ripensamento di qualche anno fa, ha fatto eseguire uno scavo che ha messo in luce la base di destra.L'interno e' a tre navate con archi a sesto acuto sostenuti da pilastri in conci di basalto, alternativamente rotondi e poligonali. 

In fondo alla navata centrale, su piano rialzato, campeggia l'Altare Maggiore originario con il paliotto in marmo scolpito a foglie d'acanto intrecciate. 
Lavori inconsulti recenti hanno, in omaggio alle nuove disposizioni liturgiche, staccato dal muro la mensa, sacrificando tutta la spalliera, anch'essa in stile.
Varie sono le opere d'arte che ancora si possono ammirare. 
Nella navata centrale un quadro della Madonna di Maniace (sec. XII?), pittura di stile bizantino di dubbia autenticita'. 
Preziosa la cornice in legno scolpito. In alto, ai lati della figura, sigle in lettere greche; si puo' leggere: M.-TH. (Meter Theo e' = Madre di Dio). 
Vi e' inoltre un polittico (sopra l'altare) su legno da datare, secondo il Radice, al 1555.
Opera di buona fattura che porta al centro la Madonna in trono col Bambino al petto. 
Sugli sportelli sono S. Antonio Ab. con in mano il bastone a croce egizia e S. Benedetto in abiti pontificali (i padri del monachesimo orientale ed occidentale). 
Nel fastigio centrale una delicata Crocifissione e nei pinnacoli laterali S. Nicola e S. Giorgio. 
Caratteristica di questo quadro e di quello della Madonna di Maniace e' la posizione del Bambino in atto di prendere il latte, il che ci dice che l'uno e l'altro furono eseguiti per questa Chiesa. 
Esso e' classificato come opera di un anonimo del sec. XVI. 
Vi e' infine un gruppo dell'Annunziazione sulla parete di fondo a destra e a sinistra dell'Altare Maggiore con a sinistra l'Angelo Nunziante, e a destra la Madonna Annunziata. 
E’ una scultura ingenua in marmo ad alto rilievo; forse unico esempio in Sicilia di scultura romanica del sec. XII. 
Nella navata di sinistra lo sportello superstite di un polittico andato perduto, recante la figura di S. Lucia con gli attributi del suo martirio, gli occhi in una tazza e la palmetta, simbolo del martire. 
Opera delicata di un'arte progredita ed evoluta, faceva parte del Polittico dell'Altare Maggiore con cui ha tante somiglianze o di un altro Polittico andato perduto? 
Nella navata di destra si ammira: un quadro della Madonna col Bambino, opera di scuola imprecisata che, presenta una stilizzazione bizantineggiante. Esso e' classificato come opera anonima del sec. XVII. 
Sul medesimo altare: carteglorie in lamina d'argento del sec. XVIII e placca di rame con la storia del Beato Guglielmo;
sotto l'altare la cassa col corpo del Beato Guglielmo. 
Egli e' l'antico Abate del Monastero benedettino implicato nella "Congiura di Randazzo" contro gli Aragonesi (1285).
In alto, una Statuetta del Beato.
Vi sono ancora un quadrettino del sec. XVI rappresentante S. Margherita, martire che tiene in mano gli strumenti del martirio;
un prezioso quadro anonimo della Madonna col Bambino con buona cornice del tempo e un ben riuscito paesaggio (sec.XVI);
tre sontuose tombe in marmo di amministratori inglesi del Castello e della ducea: Thovez (moglie 1839, marito 1856) e Grisley (1874)

IL CORTILE DI SERVIZIO

Per un fornice a destra dal cortile centrale si passa nel cortile che ospita gli ambienti dell'azienda agricola dell'antica amministrazione. 
Di fronte il grande magazzino dei cereali, un tempo pieno fino al tetto.
A sinistra sono i box dei cavalli e (dietro) la rimessa delle carrozze.
A destra: i box delle macchine agricole addossati alla fiancata della Chiesa.
Al centro: "vera" ottagonale di cisterna del sec. XVIII.

 

IL GIARDINO

Partendo dal cortile d'entrata, per un grande portone a sinistra si entra nel giardino del Castello.
Qui si trovano prati all'inglese, una fontana zampillante con pesci e nel centro un putto abbracciato ad un delfino, una vera di pozzo di stile gotico (pezzo di importazione), un bel pergolato di glicine con in fondo un cancello in ferro battuto (importato da Alessandria d'Egitto) che apre il passaggio verso la recentissima piscina e verso la forra selvaggia del prato spontaneo ornato da una colonna romana, reperto archeologico del luogo.
Alti e secolari cipressi, spalliere fiorite, aiuole a tappeto erboso, serie di vecchie giare, fanno riscontro alla parete di ponente del fabbricato centrale, coperta da una lussureggiante vite vergine fino al tetto coperto di tegole, ornato ancora dai numerosi comignoli delle vecchie stufe a legna

 

IL PIANTERRENO

Il resto del pianterreno e' occupato dagli ambienti del personale del servizio rurale, da ripostigli (carbonaia, legnaia, fucina del maniscalco, termosifone ecc.) e dalla cameretta dell'Archivio una volta ricca di pergamene, di codici e carte antiche di secoli, ormai vuota perchè tutto è stato prelevato dall'Archivio di Stato di Palermo.
 

IL PIANO RESIDENZIALE

E' il sontuoso piano di abitazione dei vecchi proprietari, gelosi della loro privacy per cui mai permisero che lo si visitasse presenti o assenti loro. Una bandiera inglese, affiancata a quella italiana e un gonfalone con lo stemma di famiglia - come abbiamo detto - che sventolavano sui pennoni della facciata, ne segnalavano la presenza. 
Attraverso un pesante portone datato al 1800 si imbocca la scala di accesso. 
Al di la' del pianerottolo, la camera delle armi ornata dagli stemmi di famiglia. Spiccano fra gli altri, il motto araldico della famiglia:"palmam qui meuit ferat" (porti la palma colui che l'ha meritata) e lo stemma ducale, un uccello nero affiancato ad un'ancora di nave. Attraverso la scala, coperta da una stuoia, si penetra nel sontuoso appartamento che e' ancora ornato con tutte le suppellettili originarie e piastrellato con pavimenti in maiolica del sec. XVIII.
Il salone d'ingresso era il luogo deputato alle riunioni della famiglia e all'incontro con ospiti e visitatori saltuari.
In esso spiccano: grande divano e tavolo rotondo in noce del sec. XIX; 
orologio (sul caminetto) lavorato in ottone e tartaruga (Ormolan sec. XIX);
ritratto del primo Duca della famiglia Hood (di Richardson);
piccola bilancia antica in metallo su tavolinetto intarsiato;
due marine rappresentanti la cattura di Warwick di R. Paton (ai lati del ritratto);
tre quadri (sulle pareti laterali): Tolone che brucia di notte (di W. Elliot); Viaggiatori in campagna (di Nasmyth); Battaglia dei Santi (di Th. Luny);
tavolo siciliano intarsiato del sec. XIX.
Il corridoio di disimpegno è un lungo ambulacro che dà accesso alle camere, ornato di parecchi pezzi archeologici e di antiquariato, collocati lungo le due pareti.
Tra di essi sono degni di nota: grande ritratto di Samuele Hood ad altezza naturale (di L. Abott); sul lato sinistro sono esposte varie incisioni di quadri i cui originali si trovano nel Museo di Londra (tra di essi il ritratto di Orazio Nelson affiancato da A. Wellington);
la bottiglia e i bicchieri (su un tavolinetto, sotto campana di vetro) con cui O. Nelson brindo' sulla nave ammiraglia, la "Victory” in occasione della battaglia di Trafalgar (1805); 
asta terminale (entro una custodia oblunga di vetro) del pennone della nave di O. Nelson; 
grande e pesante cassa proveniente da un'antica nave da guerra.
Un tempo, tra i cimeli, vi era la spada di O. Nelson dall'impugnatura tempestata di diamanti, ora scomparsa, forse portata via dagli eredi.
Si notano ancora: 
sarcofagi ed anfore romane in terracotta provenienti dalle grotte sul torrente Saracena e da altre localita' grande e pesante cassone per biancheria, di legno massiccio e scolpito, del sec. XVI; piccolo mezzobusto-reliquiario in bronzo del Beato Guglielmo;
alle pareti pregevoli quadri, grandi e piccoli, di soggetto navale; poderosa cassapanca di stile fratino, probabile pezzo proveniente dal vecchio Monastero; il quadro Scontro bellico vicino alla Corte (di Th.Buttersworth); diplomi di onorificenza (alle pareti), con o senza sigilli annessi, concessi ai vari Baroni e Visconti di Bridport; riproduzione oblunga con la scena della morte di O. Nelson;
mezzobusto di bronzo del Duca Alessandro IV;
mezzobusto di materiale plastico dell'ultimo Duca Alessandro VII da bambino.
Chiude il corridoio un bel balcone con vista sul torrente Saracena.
Le stanze sono tutte rivolte a ponente con prospetto sul giardino.
Esse sono le vecchie celle dei frati (come ci rivelano la loro uniformita' di sviluppo e le basse porte di accesso caratteristiche degli ambienti monacali) adattate ad ambienti di soggiorno, servizi e camere da letto. 
La prima stanza, detta “del Vescovo”, arredata con mobili di qualita'. Singolare la forma di uno dei comodini, databile al 1815.
Il primo appartamento e' formato da tre stanze: spogliatoio, servizi, stanza da letto. 
Nello spogliatoio si trovano due como' intarsiati del sec. XVIII. 
Nella stanza da letto: una toilette a specchio ovale del sec. XIX; una scrivania in noce del sec. XIX; un comodino intarsiato dei sec. XIX; due singolari quadri lavorati a punta d'argento rappresentanti la figura del Duca e della Duchessa; (sopra il letto) i quadri della Regina Vittoria e del Principe consorte Alberto di Sassonia; il paravento del caminetto ricavato da una pianeta ricamata in oro del sec XVIII.

Il secondo appartamento è quello del Duca con spogliatoio, servizi e stanza da letto. 
Nello spogliatoio una specchiera di fattura siciliana in noce intarsiata, a "Ballerina", del 1840. 
Nella stanza da letto si osservano: un letto pregiato; due comodini pregiati intarsiati, uno del sec. XXIII e l'altro del XIX; una specchiera del 1840; un como' intarsiato del 1840; un quadro della famiglia della Regina Vittoria e del Principe Alberto; l'invito manoscritto (sulla parete a lato del letto) dell'attuale Regina Elisabetta per la sua incoronazione, inviato al Duca Alberto Arturo Hood-Nelson; due lumi di porcellana nera del sec. XIX (sui comodini); quattro sedie intarsiate del sec. XVIII; un tavolino di pregio in stile siciliano (al centro).

Rientrati nel salone d'ingresso, a destra si accede al piccolo gabinetto di lettura o studio in cui si notano: piccoli scaffali con libri in lingua inglese; un grande seggiolone alla "Savonarola" finemente intarsiato del sec. XVIII, che pare sia stato donato al primo Nelson-Hood da Carlo III di Borbone; un ritratto a stampa di O. Nelson (sul tavolo a muro); lettere manoscritte di G. Verdi e di Meyerber (sulla parete in un riquadro); un tavolino siciliano in noce del 1815 circa.
 

IL CIMITERO

Piccolo, quadrato, all'ombra di secolari cipressi, sorge a circa 500 m dal Castello, oltre il torrente Saracena. Vale la pena visitarlo perche' in esso si conclude la storia del Castello di Maniace. Dico del Castello, perchè contiene ben 8 tombe quasi nella totalita' di membri della famiglia che per un secolo e mezzo ha avuto il possesso di questo che un tempo era un luogo di preghiera e di culto. Il luogo sacro che raccoglieva i resti mortali degli antichi monaci benedettini e basiliani era la Chiesa: non molti anni fa, nei lavori eseguiti in essa, furono trovati sotto il pavimento i corpi dei monaci e vennero purtroppo rimossi e seppelliti in una tomba comune, cosI' alla rinfusa, nel locale del presente cimitero, senza alcun segno distintivo. Un'epigrafe sull'architrave della porta di entrata da' il saluto al pietoso visitatore: "VOBISCUM NOBISQUE PAX" (A voi e a noi pace). Illustre personaggio qui sepolto è il poeta inglese William Sharp, innamorato delle bellezze della Sicilia e in modo particolare di Maniace, morto il 12 dicembre 1905. La sua tomba domina con l'alta croce in basalto l'area incolta e selvaggia del piccolo cimitero cui ormai nessuna mano amica porta un fiore e nessun cuore amoroso porge il conforto di una lacrima e di una preghiera.


N.B.
Purtroppo, dopo la pubblicazione di questa guida, il Castello e' stato oggetto di molteplici furti che hanno depauperato in maniera consistente il patrimonio sopra citato.


Testi trattI da: “Il castello della Ducea di Maniace” di Salvatore Calogero Virzì - Giuseppe Maimone Editore